18 donne, 18 libri: la canzone di Nayt che ci chiama a ricordare (e a leggere)

18 donne, 18 libri: la canzone di Nayt che ci chiama a ricordare (e a leggere)
le 18 donne citate

Quando ho ascoltato “Abbattere le mura (18 donne)” di Nayt per la prima volta, ho sentito qualcosa smuoversi dentro. Non era solo una canzone, era una chiamata. Un elenco di nomi, di volti, di storie che conoscevo e avevo vissuto – a volte da lontano, a volte da vicino, troppo vicino.
Mi ha colpito il modo in cui Nayt riesce a rendere politico il personale, e personale il politico. Le sue parole sono asciutte, rispettose, ma cariche di un’urgenza profonda: quella di ricordare. Di fare i conti con la femminilità che ci attraversa – di riconoscere il dolore, l’ingiustizia, ma anche la forza e l’amore.

Questa canzone mi ha fatto venire voglia di fare qualcosa. Di unire queste storie con ciò che amo: i libri. Per ogni nome, un libro. Per ogni donna, un filo che collega la memoria al presente e apre uno spiraglio sul futuro.

Il testo di “18 donne” è una dichiarazione d’amore e rabbia. Nayt nomina diciotto donne reali, ognuna portatrice di una storia personale che si è fatta pubblica: una cicatrice collettiva, ma anche una speranza condivisa.

Il filo conduttore è la femminilità nella sua forma più vulnerabile e potente: quella che resiste, che denuncia, che non chiede più il permesso. Nayt attraversa temi come la violenza di genere, la giustizia negata, la lotta per la propria identità, ma anche la cura, l’eredità culturale e l’amore come atto politico.
Ogni nome diventa un simbolo: di una battaglia, di una sconfitta, di una rinascita. Ed è impossibile non sentirsi interpellati.
Il verso “il tuo destino è l’amore, nient’altro” arriva come un colpo secco: una preghiera laica, una promessa che ci riguarda tuttə.

E proprio da questa invocazione, ho sentito il bisogno di fermarmi su alcune delle figure che Nayt ha voluto ricordare. Perché dietro a ciascuna di loro non c’è solo una tragedia, ma anche un’eco che continua a parlarci.

Il nome di Giulia pesa come un macigno. È la ferita più recente, quella che ancora brucia, che non ha fatto in tempo a cicatrizzarsi. La sua morte ha risvegliato un’intera generazione, ha costretto tutti a guardare in faccia una verità che non si può più ignorare: l’amore non uccide, il patriarcato sì.
Giulia è diventata il volto del femminicidio sistemico, ma anche della reazione collettiva. Le parole di sua sorella Elena hanno scosso il Paese, mostrando che il dolore può trasformarsi in lotta, che la rabbia può essere fertile.

Poi ci sono le donne che hanno trovato il modo di sopravvivere e trasformare il proprio trauma in forza.

Gessica, per esempio, è la testimonianza vivente di cosa significa sopravvivere alla violenza e scegliere di non nascondersi. Dopo l’aggressione con l’acido da parte del suo ex, ha deciso di mostrarsi, di parlare, di esporsi. Di fare del proprio volto, cambiato per sempre, un manifesto.
La sua forza è disarmante. Ci ricorda che non si è mai “finite”, che si può essere testimoni e guerriere, che la bellezza vera è quella che nasce dal coraggio.

E ci sono storie in cui l’amore familiare si fa battaglia civile.

Ilaria, infatti, non cercava vendetta, cercava verità. La sua è la storia di una sorella che ha trasformato il lutto in determinazione, l’impotenza in azione politica. Per anni ha combattuto contro il silenzio e la mistificazione, riuscendo infine a far riconoscere le responsabilità nella morte del fratello Stefano.
È la dimostrazione che la giustizia non arriva da sola: va pretesa, cercata, costruita giorno dopo giorno. E che spesso sono le donne a tenerne viva la fiamma.

Infine c’è chi ha saputo lasciare un’eredità profonda, intellettuale e politica.

Michela non ha mai avuto paura delle parole. Le ha usate come spade, come carezze, come martelli per abbattere muri culturali. Ha parlato di Dio al femminile, di famiglie non tradizionali, di morte e malattia senza mai perdere la grazia.
Anche nella sua fine ha lasciato un insegnamento: vivere è un atto politico. E scegliere come morire lo è altrettanto. Michela è stata e sarà una guida, un faro.

In ognuna di queste storie, così diverse ma intrecciate, torna lo stesso nucleo: l’amore non è debolezza. È coraggio, trasformazione, eredità.

Il verso che chiude “18 donne” è un’invocazione potente. Non è una celebrazione romantica dell’amore, ma una chiamata alla resilienza, alla cura e alla solidarietà. Dopo aver nominato vittime, sopravvissute, combattenti, Nayt ci consegna una verità universale: non siamo sole e soli, e l’amore (in tutte le sue forme) è la nostra forza più radicale.

Il «tu» non è soltanto la donna cui il brano è dedicato: è ogni persona che ascolta. È un appello collettivo, perché, come dice Ilaria Cucchi, la giustizia si costruisce insieme; come ricorda Murgia, l’esistenza è politica; come Gessica Notaro dimostra, la bellezza può nascere dalla ferita.
Questo messaggio finale è un manifesto: scegli di amare, scegli di prenderti cura, scegli di lottare. L’amore non è un destino passivo, ma un atto di volontà che rompe muri, guarisce, unisce e sostiene.

Ed è proprio da qui che nasce anche l’idea di SbooK.
Una piccola piattaforma che vuole far circolare libri, idee, storie, emozioni. Che crede che i libri possano essere strumenti per ricordare, capire, cambiare.
In occasione di questo articolo, abbiamo associato un libro a ognuna delle 18 donne citate nella canzone, creando una sorta di biblioteca collettiva della memoria e della resistenza.
Puoi scoprirli nei post su Instagram e TikTok, dove ogni storia si intreccia con una copertina, una frase, un gesto.
Perché anche noi, nel nostro piccolo, vogliamo abbattere le mura. E costruire, insieme, qualcosa che somigli all’amore.

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