Un bambino non si definisce: si protegge

Un bambino non si definisce: si protegge
bambini a Gaza

Perché nel 2025 stiamo ancora discutendo l’ovvio?

La frase è caduta come un colpo: “Definisci bambino”. L’ha pronunciata Eyal Mizrahi durante un acceso confronto televisivo con Enzo Iacchetti, trasformando in strumento retorico quello che dovrebbe essere un ovvio fatto umano — che un bambino è un bambino. Lo scontro è diventato virale non solo per la veemenza: è diventato simbolo di come, oggi, le parole vengano usate per sminuire, per legittimare o per spostare il dibattito dall’orrore sui fatti alle definizioni semantiche.

Ma davvero, nel 2025, abbiamo ancora bisogno di definire cos’è un bambino? Davvero dobbiamo giustificare l’innocenza?

Il contesto mondiale è brutale. Nel 2024, secondo UNICEF, il danno ai bambini prodotto dai conflitti ha raggiunto livelli storici: 47,2 milioni di bambini sfollati per conflitti e violenze. Numeri che non sono statistiche astratte, ma volti, scuole chiuse, infanzia cancellata.

Nella regione Medio Oriente-Nord Africa, in meno di due anni almeno 12,2 milioni di bambini sono stati uccisi, mutilati o costretti a fuggire. Gaza è l’esempio più crudo: migliaia di minori uccisi, famiglie intere sotto le macerie, ospedali e scuole ridotti in macerie, percentuali altissime di popolazione costretta a spostarsi.

E non è solo Medio Oriente. In Sudan, milioni di bambini sono stati privati di casa, cibo e cure. Save the Children parla di 2,8 milioni di bambini sotto i cinque anni sfollati nelle fasi più acute della crisi. Conseguenze devastanti non solo sulla salute fisica, ma anche sull’educazione, sulla crescita, sulla possibilità stessa di immaginare un futuro.

Questa è la realtà. E in questo contesto qualcuno osa ancora domandare: “Definisci bambino”.

Quella domanda non è ingenuità: è arma retorica. Serve a spostare il discorso dalla realtà al sofisma, a mettere in dubbio la naturale empatia, a giustificare l’ingiustificabile. Se la definizione stessa di “bambino” diventa un campo di battaglia linguistico, allora anche la protezione dei bambini diventa negoziabile. È così che l’orrore si normalizza, che la violenza trova alibi, che la responsabilità si dissolve.

La letteratura come resistenza

Che cosa possiamo fare, noi che non siamo al fronte? Non possiamo fermare una guerra dall’altra parte del mondo, ma possiamo rifiutarci di restare ciechi. Uno degli strumenti più forti che abbiamo è la lettura.

La letteratura non cancella le bombe, ma impedisce che ci si abitui ad esse. I libri conservano memorie, testimonianze, voci che non possono più parlare. Leggere storie di infanzia interrotta, ascoltare le parole di chi ha vissuto la guerra sulla propria pelle, significa dare un nome e un volto ai numeri delle statistiche. Significa ricordarci che un bambino non è un concetto manipolabile, ma una vita concreta.

E non basta che leggano i bambini. Dobbiamo leggere noi adulti. Perché se ci sono ancora persone che non sanno riconoscere cos’è un bambino, allora c’è qualcosa che abbiamo dimenticato. I libri ci costringono a guardare in faccia ciò che preferiremmo ignorare: la sofferenza, l’ingiustizia, la crudeltà. Ma ci ricordano anche la bellezza, la resilienza, la speranza.

La prima cosa che impariamo da piccoli è leggere. Impariamo a distinguere le parole, a dare loro un significato. Eppure da adulti sembriamo aver dimenticato questa lezione: confondiamo, relativizziamo, pieghiamo il linguaggio a nostro favore. Per questo è urgente tornare alla lettura: perché solo così possiamo continuare a distinguere ciò che è umano da ciò che lo disumanizza.

SbooK nasce dentro questa convinzione: non perché i libri possano sconfiggere la guerra, ma perché possono aprire gli occhi, scuotere le coscienze e mantenere viva la memoria. E oggi, più che mai, abbiamo bisogno che la cultura giri, che i libri parlino, che la parola “bambino” torni a essere ciò che è sempre stata: vita, futuro, innocenza.